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22
feb
2016

Giubileo della Curia Romana, del Governatorato e delle Istituzioni collegate alla Santa Sede

22 febbraio 2016 10:30 - 22 febbraio 2016 12:00 (Salva sul calendario)

Basilica di San Pietro

Ore 8:00 Ingresso all'Aula Paolo VI

 

Ore 8:00 Meditazione

             La Misericordia nella nostra vita quotidiana

             (P. Mark RUPNIK, S. J.)

 

Ore 9:15 Processione verso la Porta Santa

            delle Consacrate, dei Religiosi non-sacerdoti e dei Laici

 

Ore 9:30 Processione dei Sacerdoti

rivestiti degli abiti liturgici verso la Porta Santa

I Sacerdoti sono pregati di portare con sè il proprio camice e stola bianca

che indosseranno nell'atrio dell'Aula Paolo VI prima della Processione.

I signori Cardinali e i Vescovi troveranno là quanto necessario per la concelebrazione.

 

Ore 10:30 Santa Messa nella Basilica di San Pietro presieduta da Papa Francesco

Meditazione di P. Marko I. Rupnik, S.I.

22-02-2016

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Santo Padre, venerabili Padri, fratelli e sorelle in Cristo,

mi è stato chiesto di preparare un aiuto per la meditazione su La misericordia nella vita quotidiana.

Pavel Florenskij, un geniale pensatore cristiano, di vita santa e martire, ripeteva sempre che la vita è un tessuto relazionale, che la vita scorre attraverso le relazioni e che in queste l’uomo manifesta chi è. Ci sono solo due possibilità, secondo lui: l’individuo rivela se stesso; la persona, invece, come sappiamo teologicamente, rivela l’altro. Dentro il volto del cristiano c’è sempre un altro volto. Dentro il cristiano vive la Chiesa, perché partecipiamo al Corpo di Colui che poteva dire “chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,9). È dunque la storia il luogo della conoscenza della persona. Questo vale per l’uomo – perché la storia è un mistero di relazioni – e vale anche per Dio. Dio lo conosciamo nella storia. Dio si presenta nell’Esodo così: una viscerale commozione per l’uomo io provo! Dunque, si rivela come Dio della misericordia. Sin dalle prime pagine della Bibbia, troviamo la manifestazione di Dio come Colui che scende e si incammina sulle orme dell’uomo. Tutta la Bibbia è un racconto di questa ricerca. Dio è l’unico che può coprire la distanza che separa l’uomo perduto, peccatore, morto, e il Dio vivente. L’uomo da solo non può varcare in nessun modo questa distanza, perché significherebbe varcare il peccato e la morte. Non lo può. La capacità di Dio di coprire tale distanza e di raggiungerci è l’identità di Dio verso di noi e verso la creazione, cioè la misericordia. La misericordia è questa estasi d’amore con la quale Dio raggiunge l’uomo nel suo peccato e nella sua morte. Leggiamo nell’Ufficio maronita del Sabato Santo:

Buon pastore, per cercare la tua pecorella ti sei abbassato, fosti elevato sul legno e da lassù hai visto che era diventata polvere; allora sei disceso presso di lei nel grande Sheol, ti sei chinato sulla polvere, l’hai chiamata con la tua voce, l’hai risuscitata, l’hai messa sulle tue spalle e l’hai fatta risalire con te in cielo.

 

Questa stessa immagine, che si trova anche nel Logo del Giubileo, la troviamo descritta in questo bellissimo inno di sant’Efrem il Siro.

Il pastore di tutto è disceso a cercare Adamo, la pecora che si era perduta; sulle sue spalle l’ha portata alzandola. Egli era un’offerta per il padrone del gregge. Benedetta la sua discesa! […] Tu sei disceso nell’Ade per cercare la tua immagine inabissata; come un povero e un mortale tu sei disceso e hai scandagliato l’abisso dei morti. La tua misericordia è stata confortata nel vedere Adamo riportato all’ovile.

 

La misericordia è come la comunione. In senso stretto, la comunione è la vita solo di Dio e la misericordia è il nome solo di Dio. Queste due realtà l’uomo non può inventare né fare. Noi non possiamo produrre la comunione e non possiamo essere misericordiosi se prima non siamo raggiunti dalla misericordia nel Figlio e cominciamo a partecipare al dono della vita che è comunione. Quindi, misericordia e comunione non sono opera nostra. Quando l’uomo si sforza di realizzare la comunione – confondendola ad esempio con la comunità che è semplicemente il luogo dove la comunione si manifesta e si realizza – prima o poi si stanca. La comunione, infatti, deve realizzarsi in modo pasquale. Queste due realtà noi non possiamo farle, possiamo solo renderle manifeste. È necessario fare attenzione, perché con il forte antropocentrismo in cui ci troviamo, l’uomo pensa di poter fare anche le opere della misericordia. No. L’uomo diventa piuttosto il luogo della rivelazione e della comunicazione della misericordia, perché comincia a vivere secondo la vita di Dio, cioè includendo l’altro. L’esistenza di Dio, come dicevano gli antichi Padri greci è nel modo di essere: il Padre esiste già includendo l’altro, il Figlio. L’esistenza di Dio è coinvolgente, inclusiva, e quando l’uomo riceve questa vita comincia a vivere così, diventa una rivelazione.

 

Per vedere un po’ meglio come l’uomo può rivelare la sua realtà, il suo contenuto, e qual è il vero contenuto che l’uomo nella storia può rivelare come Chiesa, possiamo rifarci ad alcuni passi biblici ben conosciuti, così che non c’è neanche bisogno di rileggerli, perché tutti li abbiamo ben presenti. Ad esempio Gv 15,1-10, dove Cristo dice: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo […] Rimanete in me”. Per portare frutto, bisogna rimanere in Cristo. Questa immagine che Cristo prende per presentare se stesso e la nostra unione con Lui è molto comune nel mondo ebraico, perché Israele era la vigna del Signore, la vigna che però non dava il frutto atteso. Cristo si presenta come la vera vite e il Padre è il vignaiolo. Qui ci sono tre elementi che vorrei mettere in evidenza.

 

I. La prima riguarda la potatura. La vite va potata due volte. La prima è la potatura che riguarda lo sviluppo del vitigno e dunque ci vuole una grande saggezza per sapere quale tralcio va tagliato e quale va irrobustito, per permettere una bella crescita del vitigno che altrimenti si spegne, si chiude su di sé e non produce. La seconda potatura è ancora più delicata. Si fa nel momento in cui si intravedono già sul tralcio i grappoli. Si tratta di sacrificare alcuni tralci già con i grappoli, affinché la vite porti più frutto. Qui si comprende immediatamente che il “maggior frutto” non è inteso direttamente in modo quantitativo, ma soprattutto qualitativo, perché non si parla del frutto-grappolo, ma del frutto del vitigno che è il vino. Il vignaiolo sa. Il vignaiolo sa come potare; anzi, in greco il termine usato per questa seconda potatura è purificare. Si vuole indicare l’ultimo scopo del vitigno, cioè il vino, deve essere di più e migliore. Qui immediatamente si può trarre un insegnamento spirituale molto prezioso: bisogna stare attenti a non essere noi a potare noi stessi, perché non siamo noi i vignaioli. Contrariamente, è facile che si poti e si purifichi secondo una visione dell’uno o dell’altro, di una corrente culturale o di un’altra, di un’epoca o di un’altra. Così, tuttavia, si può rovinare noi stessi, perché è il Padre che sa come si porta più frutto. E solo il Padre sa quale frutto bisogna portare. Uno può combattere se stesso, perché magari è una persona forte, infuocata, e pensa di dover diventare tranquillo, flemmatico, credendo così di salire qualche gradino di perfezione. Mentre, invece, il Padre che è il vignaiolo ha bisogno di questo frutto in un posto dove ci vuole una persona forte, energica, decisa, che sa infuocarsi e infuocare. Se decidessimo noi, quindi, potremmo rovinare la missione che il Padre voleva affidarci; verremmo meno allo scopo che il Padre aveva stabilito. È il, Padre infatti, che pota attraverso gli eventi della storia, gli incontri… È la storia il luogo della potatura e anche del portare frutto.

 

II. La seconda cosa che vorrei evidenziare è che il frutto del vitigno arriva dopo la Pasqua, cioè dopo il torchio. L’uva va passata sotto il torchio, proprio come le olive nel frantoio per arrivare all’olio. Non ci si può innamorare dell’uva, che non è il frutto finale della vite. Per portare frutto, ci vuole la maturazione pasquale. L’amore di Dio si realizza nella storia in modo pasquale e lo stesso vale per il frutto dell’uomo, il dono di sé, l’amore che rimane oltre la morte. Non ci si può fermare alla prima tappa della vita, quando uno crea, propone, realizza… Ci vuole il passaggio del torchio, per il mosto e poi per il vino. E la pasqua nessuno se la prepara da solo, sono gli altri a prepararla, e spesso i più vicini. Come per Cristo: sono andati i suoi discepoli a preparargliela. L’amore deve maturare in modo pasquale, altrimenti non porta il frutto dell’amore che rimane. Cristo stesso, parlando del seme in Gv 12,24, dice “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Chi offre la propria vita porta frutto.

 

III. La terza sottolineatura che vorrei fare riguarda il legno del vitigno. Il legno della vite è un legno assolutamente unico, particolare, tanto che il profeta Ezechiele, nel capitolo 15 si dilunga su questo strano legno che non serve a nulla, se non a fare il vino:

Si adopera forse quel legno per farne un oggetto? Si può forse ricavarne un piolo per attaccarvi qualcosa? Ecco, lo si getta nel fuoco a bruciare, il fuoco ne divora i due capi e anche il centro è bruciacchiato. Potrà essere utile per farne un oggetto? Anche quand'era intatto, non serviva a niente: ora, dopo che il fuoco l'ha divorato, l'ha bruciato, si potrà forse ricavarne qualcosa? (Ez 15,3-5)

Il legno del vitigno non serve a nulla. Neanche la cenere di questo legno serve a qualcosa. Nei tempi antichi i contadini lo sapevano molto bene, visto che facevano il sapone dalla cenere, e per questo sapevano che non si deve usare la cenere del vitigno per il sapone, perché questo sapone sporca e lascia il segno. Dunque, un legno assolutamente inutile e allo stesso tempo assolutamente unico, perché, accogliendo l’acqua che attraversa la vite, fa assorbire all’acqua le caratteristiche degli elementi di questo legno per produrre il grappolo che, attraverso il torchio, si trasforma nel mosto e infine nel vino. Il legno del vitigno non serve a nulla, tranne che a fare il vino. È un legno unico, che contiene tutto ciò che è necessario per avere il vino. Allora, a che cosa rimanda Cristo in questo discorso sulla vite e i tralci? All’umanità. Questo legno è l’uomo, è la natura umana che, se accoglie il flusso della vita – il succo che passa, che è la vita del Figlio che ha la sorgente nel Padre –, allora l’umanità accogliendo questo flusso della vita divina può portare il frutto, cioè l’amore, che è gioia. Se non viene attraversata dalla vita filiale, dalla vita divina, finisce tragicamente come ogni essere della creazione. È come il tralcio, che cade dalla vite e muore. L’uomo è uomo solo se è divino-umano, se è di Cristo, se è la divino-umanità di Cristo. Se, attraverso la nostra natura umana, non scorre un principio personale, personalizzante, filiale, con una vita che ha la sua sorgente nel Padre, possiamo innalzarci con tante opere, ma la tomba sarà la nostra ultima stazione. Invece, se passa attraverso di noi questa vita di Dio, l’uomo è capace di portare il frutto che rimane; è capace di avvolgere il suo lavoro nell’amore che rimane in eterno, perché torna al Padre. Solo Cristo è la vera vite, cioè il vero uomo in cui scorre la vita della figliolanza. È solo lui lo spazio in cui lo Spirito Santo penetra tutta l’umanità con la vita che è comunione. Con il battesimo, noi siamo incorporati in questo suo corpo, siamo i tralci di questa vera vite. E solo da Lui e in Lui noi partecipiamo alla vita che è comunione, perché da Lui siamo raggiunti nella misericordia. Per questo, ciò che l’uomo può rivelare è la sua divino-umanità in Cristo.

 

La grande arte spirituale, dunque, è come rimanere in Cristo. Perché solo in Lui la nostra natura umana viene penetrata da una vita personale, da un principio personale relazionale. Come un raggio di sole penetra nell’acqua, così la vita personale divina penetra la natura umana. L’uomo è veramente uomo solo se è divino-umano, solo se è in Cristo. Ed è proprio lo Spirito Santo – che è la vita di Dio, la vita dell’unione tra Padre e Figlio, che personifica la vita come comunione – che in Gesù Cristo viene dato agli uomini. Giovanni dice: “Siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14). Amiamo perché abbiamo la vita che è amore. “Chi ha il Figlio di Dio ha la vita, chi non ha il Figlio di Dio, non ha vita” dice nella stessa lettera (5,12).

 

Per vedere questo bel contenuto della divino-umanità, andiamo ad un altro passo che conosciamo bene tutti, Cana di Galilea in Gv 2,1-11. Le nozze ci rimandano al Cantico dei Cantici, cioè al rapporto uomo-Dio. Ma qui il personaggio centrale del brano sono le sei giare di pietra, vuote. Tutta la tradizione patristica ha visto in queste giare la legge che è giunta alla sua decadenza moralistica e legalistica. Si è prosciugata e non serve più per la purificazione, perché non c’è niente dentro. Quando Maria dice: “Non hanno più vino”, cosa vuol dire? Nei libri sapienziali il vino è il senso della vita, il sapore della vita. Dice il Siracide “Che vita è quella dove manca il vino?” (Sir 31,27). Il vino è dunque come il sapore della vita, come l’amore nel Cantico dei Cantici, come la vera gioia del cuore dell’uomo. E qui a Cana, chi è che non ha amore? Chi è senza gioia? Gli sposi. Ma gli sposi sono immagine della relazione uomo-Dio. Perché si sposano, se non hanno l’amore? Una religione che finisce in un moralismo legalistico, prosciugato, non serve più a nulla. Infatti, come sappiamo dall’inizio del vangelo di Giovanni, Cristo sostituisce una serie di cose e qui sostituisce l’alleanza (cf Eb 8,13), introduce un nuovo rapporto tra uomo e Dio basato sull’amore, basato sul compimento dell’alleanza.

 

L’evangelista sottolinea che è il terzo giorno quello in cui si festeggiano le nozze. Il terzo giorno era molto ben conosciuto nell’Antico Testamento, perché era il giorno in cui il popolo ricevette la Legge e perciò il popolo si doveva purificare (cf Es 19,11-20). Quella teofania oscura, tra tuoni e fulmini, a Cana di Galilea diventa la nuova teofania, il terzo giorno, giorno della nuova alleanza, della risurrezione di Cristo, di un rapporto fondato sull’amore filiale tra Padre e Figlio.

 

È estremamente significativo che, nel vangelo di Giovanni, Cristo cominci l’opera della sua redenzione non con qualche guarigione od esorcismo, ma dando gioia, facendo festa, sostituendo una religione che si è prosciugata nella sterilità della legge con una fede che è accoglienza della vita nuova, di una vita che è un rapporto nuovo tra uomo e Dio, un rapporto sostenuto dalla stessa Persona che unisce il Figlio al Padre, che personifica la vita come comunione e come amore: lo  Spirito Santo, che dà l’amore (cf Rm 5,5). Perciò Cristo ci dona questa vita nel compimento della nuova Alleanza. Lui spira sulla croce e noi prendiamo questo respiro e cominciamo a vivere. Il costato si apre e, da quella ferita, viene generata l’umanità nuova, filiale, unita a Dio. Non con un nostro merito o impegno ma come dono, come amore realizzato, come una vita giustamente chiamata bellezza. In Cristo si apre la via della figliolanza, non come una nostra conquista, ma come accoglienza: “A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Non più con il mio sforzo, ma con un’accoglienza.

 

Giovanni ci tiene a far notare che l’acqua non è diventata vino nelle giare, perché proprio esplicitamente dice che il maestro di tavola non sapeva di dove venisse il vino, ma lo sapevano i servi, che avevano attinto l’acqua. Le sei giare, dunque, che simboleggiano la legge, non possono dare la vita, come dice Paolo ai Galati (cf Gal 3,21). La legge non è in grado di costituire un uomo nuovo, di fare una nuova costituzione dell’uomo. La religione della legge non è in grado di far abitare l’uomo dall’amore di Dio, affinché porti quel frutto che è la gioia e la felicità di chi ama perché è amato. Questo può farlo solo la fede.

 

Il sistema della religione decaduta in una legge sterile si vede molto bene in un altro passo, Mc 10,17-22, dove un uomo ricco corre verso Cristo e si getta davanti a lui con una domanda esplicita. Ora, noi sappiamo che in Medio Oriente non si corre. Infatti, nel vangelo di Marco corrono solo due persone. In Medio Oriente normalmente ci si avvicina con un incedere dignitoso. Si corre solo quando si è pressati da qualcosa, tanto è vero che questo uomo si getta ai piedi di Gesù con una domanda. Il gettarsi davanti a Cristo in una perfetta logica religiosa fa intravedere una mentalità mercantile. “Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” Il problema è il “che cosa devo fare”.

 

Quest’uomo è ricco, come sappiamo dal racconto, ed è pure molto religioso, molto osservante, ma non è felice. Ha paura della morte, vorrebbe vivere in eterno, ma sa che morirà. Pensa di dover fare qualcosa verso Dio per attirare la sua benevolenza e il premio dell’eternità. Questa è proprio la tipica mentalità religiosa basata sull’impegno dell’individuo. Possiamo vedere una specie di decadenza della religione come un insieme di prescrizioni, di dottrine, precetti, esercizi, pratiche da compiere per avere da Dio un profitto, una considerazione, uno status, la benevolenza. Non vivendo secondo le prescrizioni religiose si merita il castigo. Questo modo di procedere in cui la religione trova nell’uomo sempre qualcosa che ancora manca, qualcosa da perfezionare e da purificare, stanca, logora e alla fine non salva. Ora, Cristo è venuto a liberarci esattamente da questo. Come si vede nel capitolo 10 di Giovanni, dove è chiaro che vengono sovrapposte due immagini, quella dell’ovile del villaggio – che tutti conoscevano – e quella degli atri del tempio, il recinto della tenda dell’incontro. Nel versetto 4, Giovanni sottolinea che Lui spinge le pecore fuori dall’aulê, dall’atrio del tempio, per essere libere. Ed è per questo che si sono arrabbiati tanto, perché parlava del tempio e non semplicemente dell’ovile. Proprio come il cieco appena guarito nel capitolo 9 che viene cacciato dal tempio. Viene cacciato perché è entrato per la porta di Cristo nella vera casa, dove è libero di entrare e di uscire. Con questo, Cristo ha dichiarato che c’è qualcosa di falso nel modo di intendere la religione; cioè nell’alleanza trasformata in un’altra cosa. Sappiamo come prosegue la storia: nel capitolo 11 Cristo chiama la pecora – Lazzaro – affinché venga fuori, ma per andare lui dentro la tomba e liberare noi dalla morte. O anche nel vangelo di Matteo (11,28), dove dice “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”, l’esegesi moderna quasi unanimemente afferma che le parole sono rivolte proprio alla gente oppressa da un modo di vivere la religione, stanca di un’osservanza che non porta ad abbeverarsi all’acqua pura che disseta. Lo stesso tema lo troviamo nell’evangelista Marco nel primo capitolo, dove Cristo comincia la sua missione esorcizzando un demonio nella sinagoga, quello che Berdjaev chiamerebbe il “demonio che si serve della religione”.

 

Cristo si presenta come quello spazio, quel nuovo tempio in cui noi abbiamo libero accesso per una “via nuova e vivente” (Eb 10,20) al trono della grazia nel santuario. Perciò siamo liberi. San Paolo nella Lettera ai Galati ci avverte in modo fortissimo che c’è il pericolo che, pur essendo strappati dalla schiavitù da Cristo e liberati dal giogo che fa leva su noi stessi, sul nostro impegno, dunque liberati da noi stessi, nonostante ciò possiamo di nuovo tornare alla legge, alla religione antica, alla schiavitù. E, benché abbiamo cominciato con lo Spirito che è vita, possiamo finire con la carne che muore: “Siete così privi d'intelligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne?” (Gal 3,3). C’è il rischio reale che, anche all’interno del Corpo di Cristo, noi riproponiamo il metodo che prima abbiamo definito “della religione”, cominciando a far leva su ciò che noi dobbiamo fare per conquistare qualcosa. L'uomo viene giustificato gratuitamente, non possiamo farlo noi. C’è allora la tentazione di cominciare a mettere di nuovo al centro il nostro impegno, il guadagno, la conquista e il merito, per avere poi in cambio qualcosa.

 

Il pensiero del mondo, cioè la sua mentalità, entra nella Chiesa per la via della religione, anzi, come direbbe Berdjaev, il tentatore può entrare nella Chiesa solo attraverso la via della religione (cf Lc 4,1-13; 2Cor 11,14), altrimenti non ha accesso, perché sarebbe riconosciuto subito. E la via della religione è la via dell’individuo. È sempre Berdjaev a sostenere quanto il crollo della vita spirituale della Chiesa sia dovuto ad un’impostazione basata sull’individuo, sulla ricerca della perfezione ideale dell’individuo. Fraintendere la via della religione significa allora abbandonare la fede come accoglienza della vita e del dono, sostituirla con l’impegno con il quale si conquista, si merita, si è premiati.

 

Christos Yannaras in alcuni suoi studi fa vedere la tragedia, storicamente accaduta, della istituzionalizzazione religiosa della fede e della Chiesa, quando siamo entrati nell’impero e abbiamo cominciato a strutturare la Chiesa in un modo para-imperiale o, più tardi, para-statale. Abbiamo fatto decadere la fede, che è un’accoglienza della vita nuova, vissuta come vita di comunione personale, in un semplice impegno di pratiche religiose. L’impero ci ha accolti come religione, tanto è vero che proprio in Vaticano, nelle Stanze di Raffaello, l’affresco di Tommaso Laureti testimonia come ci siamo compresi come una religione che ha sostituito le religioni pagane. Ma è un errore tragico. Il cristianesimo non può essere inteso come un sostituto di una religione pagana, l’abbattimento di un dio per mettere al suo posto Cristo. Nessuna religione e nessuna legge intesa in questo modo può creare l’uomo nuovo. Non si tratta di aggiustare un po’ l’uomo, ma di farlo rinascere, di farlo risorgere, di farlo nuovo, di farlo filiale, e perché tu sia filiale qualcuno ti deve generare. La nostra fede è l’accoglienza di una vita.

 

Molte realtà della Chiesa hanno acquistato un carattere parastatale, caratterizzato soprattutto dalla funzionalità. Negli ultimi secoli, quasi tutta la formazione si è concentrata sul perfezionamento dell’individuo. La stessa vocazione è stata intesa sempre più in un’ottica funzionale all’opera e all’istituzione. Si insisteva molto su una pratica religiosa che evidentemente era più portata a nutrire il sentimento religioso che la vita come comunione, cioè manifestazione di un’umanità teofanica. Quindi non era facile considerare la vita del cristiano come un’umanità teofanica, perché luogo della realizzazione dell’amore di Dio.

 

Alexander Schmemann fa vedere con precisione come la centralità dell’individuo e la sostituzione della fede come accoglienza della vita con una pratica religiosa di conquista hanno sterilizzato e prosciugato molte realtà della Chiesa. La fede è sempre accoglienza di una vita, e questo è il compito della Chiesa, come si esprime Paolo nella Lettera agli Efesini: “per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù" (Ef 2,7).

 

Ora, la Curia – non solo questa nostra a Roma, ma ogni curia – viene facilmente intesa su quest’onda della tentazione di essere un’organizzazione para-statale e para-imperiale. Una persona che vive nell’ottica della religione può darsi pure che sia impeccabile, ma quello che può rivelare sarà sempre solo se stessa. Le mancherà quindi una cosa fondamentale: non può rivelare la vita come comunione, come inclusione dell’altro. E questo è lo scandalo che possiamo dare al mondo: quello di far vedere che viviamo il cristianesimo come una realtà individuale. Abbiamo secoli di spiritualità che hanno sottolineato la perfezione dell’individuo. Quando si entra in seminario, subito si comincia a lavorare in quest’ottica. In seminario come dappertutto. Questa è un’epoca ormai finita, ma non sarà così facile congedarsi da tutto ciò. Il cristianesimo non promette la perfezione individuale, ma promette la vita eterna, nella comunione del corpo di Cristo. Altrimenti può succedere facilmente che, anziché un flusso di vita comunionale che si manifesta nell’uomo come un modo di essere inclusivo, percependo se stessi in un tessuto organico che è il Corpo di Cristo, si annidino in noi tutte le patologie tipiche del mondo.

 

La Chiesa appartiene nel suo nucleo già all’eschaton e ha da dire qualcosa al mondo proprio perché noi cristiani siamo chiamati ad essere la manifestazione del compimento in Cristo. Mentre una logica para-imperiale o para-statale che fa leva sull’individuo, sulla sua perfezione, sul suo impegno nella religione, fa leva non sul compimento in Cristo, ma sul merito. San Paolo, tuttavia, sempre nella Lettera ai Galati, afferma che dal nostro impegno, dal nostro eseguire dei compiti, nessuno troverà la propria giustificazione (cf Gal 2,16), che per Paolo significa il rapporto giusto, totale, vero con Dio – cioè quello del Figlio. Possiamo diventare perfetti, ma da soli non diventeremo mai figli. È la Chiesa che ci genera, che è la madre, e che ci fa vivere da figli liberi. Non è contando sulla carne, cioè sul nostro impegno, che possiamo liberarci. San Paolo elenca bene quali sono le opere vere della carne sulla quale noi vogliamo appoggiare anche l’uomo spirituale, mentre evidenzia con chiarezza i frutti dello Spirito. E il frutto è sempre l’incontro, nella sinergia, di Dio e dell’uomo. È una collaborazione, una convergenza di forze. L’elenco di frutti che troviamo in Galati 5,22 è proprio la manifestazione nella nostra umanità, di quel frutto dell’uomo che è il tralcio che rimane sulla vite, cioè è il frutto dell’uomo che vive la propria umanità nello Spirito Santo, alla maniera del Figlio. L’uomo come luogo della misericordia è l’uomo come luogo della manifestazione della Chiesa, dell’ecclesialità, della comunione. L’accoglienza della vita nuova in Cristo genera anche una nuova mentalità, una specie di nuova intelligenza, che è esattamente quella comunionale. L’uomo immerso nella vita dello Spirito Santo, che lo rende figlio nel Figlio, diventa capace di vedere l’insieme, di vedere organicamente. Si sviluppa così un intelletto che è dono dello Spirito Santo e che si compie nella comunione, nell’amore.

 

Vorrei concludere con Vladimir Solov’ëv, un grande maestro che il mio padre spirituale, p. Špidlík, mi ha tanto fatto leggere anni fa, e che von Balthasar annoverava tra i più grandi pensatori del secondo millennio. Solov’ëv dice che la perfezione della Chiesa sta nella sua “organizzazione”. Per noi questo significa mettere subito in atto delle commissioni. No, non si tratta di questo. Solov’ëv dice che la perfezione della Chiesa consiste nella sua organizzazione, nel senso di una vita organicamente plasmata secondo la divino-umanità di Cristo. La Chiesa può portare nel mondo una trasfigurazione della società perché fa e organizza la vita al modo della sinergia trinitaria, manifestando la divino-umanità di Cristo, preparando la sua nuova venuta, sprigionando la creatività dell’uomo. C’è una prima tappa che all’inizio è necessaria, che obbedisce alla dinamica peccato-redenzione, ma che poi va necessariamente superata. Deve poi seguire il cammino del Pneuma, dello Spirito Santo, della creatività, dello sprigionare un’umanità ormai divenuta teofanica, rivelatrice dell’amore di Dio, rivelatrice del modo di essere inclusivo, che lascia trasparire l’altro e lo coinvolge. Se oggi, in questa società così frantumata, vogliamo suggerire qualcosa alle istituzioni civili del mondo, sarebbe bello se fosse questo: un modo di strutturarsi, governare, dirigere, gestire che sia comunionale, inclusivo, e che è la manifestazione di una realtà più profonda, affinché suscitiamo l’appetito nel mondo di una vita così, perché il mondo, vedendoci, dica: che bello! Dietro una Chiesa brava non si incamminerà mai nessuno, otterrà degli applausi e basta. Ma una Chiesa bella che dentro di sé, nei suoi sguardi, gesti, parole fa emergere un altro – il Figlio, e ancora di più, il Padre – perché mossa dallo Spirito Santo che è la vita come comunione, suscita l’appetito. Allora l’uomo diventa luogo della vita come comunione e come misericordia. L’uomo come luogo della Chiesa, come luogo della ecclesialità.

 

Se vogliamo suggerire qualcosa al mondo a livello delle strutture e delle istituzioni, questo è l’ambito e l’ora dove Dio chiama. È così bello sentire persone che hanno avuto a che fare con la Curia, con qualsiasi curia, e sentirle dire che hanno trovato persone di una umanità libera, che vivono come un’offerta, disponibili, generose, portatrici di una visione ecclesiale che include, che apre alla relazione, all’accoglienza e non individui, magari corretti, ma alla fine semplici funzionari. La Curia non come zona di categorie del mondo, ma come esperienza della Chiesa eucaristica. O viviamo in un modo divino-umano in Cristo e facciamo scorrere dentro di noi questa vita che è comunione e che coinvolge nella comunione includendo l’altro, che ci muove a coprire la distanza e a coinvolgere, oppure siamo senza contenuto e viviamo nella morte.

 

È questo che può permetterci di iniziare a coprire la distanza tra noi e il nostro contemporaneo, ferito come noi, dolente come noi, provato come noi. Più siamo provati come tutti gli uomini, più saremo misericordiosi, perché questo è il sacerdozio di Cristo, provato in tutto per essere un sacerdote misericordioso (cf Eb 2,17). Così coinvolgeremo le persone in un desiderio di vita nuova.

 

 

 

 

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Cattedra di San Pietro Apostolo
Basilica Vaticana 
Lunedì, 22 febbraio 2016

 

La festa liturgica della Cattedra di san Pietro ci vede raccolti per celebrare il Giubileo della Misericordia come comunità di servizio della Curia Romana, del Governatorato e delle Istituzioni collegate con la Santa Sede. Abbiamo attraversato la Porta Santa e siamo giunti alla tomba dell’Apostolo Pietro per fare la nostra professione di fede; e oggi la Parola di Dio illumina in modo speciale i nostri gesti.

In questo momento, ad ognuno di noi il Signore Gesù ripete la sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Una domanda chiara e diretta, di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. Ma in essa non c’è nulla di inquisitorio, anzi, è piena di amore! L’amore del nostro unico Maestro, che oggi ci chiama a rinnovare la fede in Lui, riconoscendolo quale Figlio di Dio e Signore della nostra vita. E il primo chiamato a rinnovare la sua professione di fede è il Successore di Pietro, che porta con sé la responsabilità di confermare i fratelli (cfr Lc 22,32).

Lasciamo che la grazia plasmi di nuovo il nostro cuore per credere,  e apra la nostra bocca per compiere la professione di fede e ottenere la salvezza (cfr Rm 10,10). Facciamo nostre, dunque, le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt16,16). Il nostro pensiero e il nostro sguardo siano fissi su Gesù Cristo, inizio e fine di ogni azione della Chiesa. Lui è il fondamento e nessuno ne può porre uno diverso (1 Cor 3,11). Lui è la “pietra” su cui dobbiamo costruire. Lo ricorda con parole espressive sant’Agostino quando scrive che la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, «non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome. Non è la pietra che trae il suo nome da Pietro, ma è Pietro che lo trae dalla pietra; così come non è il nome Cristo che deriva da cristiano, ma il nome cristiano che deriva da Cristo. […] La pietra è Cristo, sul fondamento del quale anche Pietro è stato edificato» (In Joh 124, 5: PL 35, 1972).

Da questa professione di fede deriva per ciascuno di noi il compito di corrispondere alla chiamata di Dio. Ai Pastori, anzitutto, viene richiesto di avere come modello Dio stesso che si prende cura del suo gregge. Il profeta Ezechiele ha descritto il modo di agire di Dio: Egli va in cerca della pecora perduta, riconduce all’ovile quella smarrita, fascia quella ferita e cura quella malata (34,16). Un comportamento che è segno dell’amore che non conosce confini. È una dedizione fedele, costante, incondizionata, perché a tutti i più deboli possa giungere la sua misericordia. E, tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la profezia di Ezechiele prende le mosse dalla constatazione delle mancanze dei pastori d’Israele. Pertanto fa bene anche a noi, chiamati ad essere Pastori nella Chiesa, lasciare che il volto di Dio Buon Pastore ci illumini, ci purifichi, ci trasformi e ci restituisca pienamente rinnovati alla nostra missione. Che anche nei nostri ambienti di lavoro possiamo sentire, coltivare e praticare un forte senso pastorale, anzitutto verso le persone che incontriamo tutti i giorni. Che nessuno si senta trascurato o maltrattato, ma ognuno possa sperimentare, prima di tutto qui, la cura premurosa del Buon Pastore.

Siamo chiamati ad essere i collaboratori di Dio in un’impresa così fondamentale e unica come quella di testimoniare con la nostra esistenza la forza della grazia che trasforma e la potenza dello Spirito che rinnova. Lasciamo che il Signore ci liberi da ogni tentazione che allontana dall’essenziale della nostra missione, e riscopriamo la bellezza di professare la fede nel Signore Gesù. La fedeltà al ministero bene si coniuga con la misericordia di cui vogliamo fare esperienza. Nella Sacra Scrittura, d’altronde, fedeltà e misericordia sono un binomio inseparabile. Dove c’è l’una, là si trova anche l’altra, e proprio nella loro reciprocità e complementarietà si può vedere la presenza stessa del Buon Pastore. La fedeltà che ci è richiesta è quella di agire secondo il cuore di Cristo. Come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo Pietro, dobbiamo pascere il gregge con “animo generoso” e diventare un “modello” per tutti. In questo modo, «quando apparirà il Pastore supremo» potremo ricevere la «corona della gloria che non appassisce» (1 Pt 5,14).

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Basilica di San Pietro

Basilica di San Pietro, Città del Vaticano, Città del Vaticano